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La voce degli educatori

“Ti svelo un segreto” - Narrazione di un'esperienza professionale significativa

Di Emidio Musacchio, Coordinatore Pedagogico (Polo Portovaltravaglia - Fondazione Asilo Mariuccia)

Ecco, ci siamo. Hamza* mi ha detto che vuole parlarmi. Aspettavamo tutti che accadesse. Ogni nostro incontro e colloquio ha aperto la strada a questo momento.

Ricordo che era un venerdì, alle 15.30 circa terminano le attività del laboratorio di educazione al lavoro in cui è inserito, a cui partecipa svogliatamente, ma con continuità. Mi incrocia fuori dall’ufficio degli educatori e mi dice: “Ho proprio bisogno di sfogarmi un po’”, incrocio lo sguardo del mio collega (che in mattinata mi aveva accennato al fatto di avere visto Hamza piuttosto teso) e colgo apprensione, ma allo stesso tempo sollievo perché ha detto di volerne parlare con me e lui può tornare alle attività ordinarie con gli altri ragazzi. Rispondo ad Hamza che dovevo finire alcune cose e che ci saremmo potuti vedere mezzora dopo, gli dico intanto di approfittarne per andare a farsi una doccia e cambiarsi (visto che aveva finito in quel momento di lavorare in serra), così da prepararsi per il colloquio e per quello che avrebbe voluto dirmi. Anche io d’altronde dovevo prepararmi, sapevo che di lì a poco quel segreto non sarebbe più stato tale, avevo bisogno di raccogliere le idee, scegliere le parole che avrei dovuto usare, ma poi per dire cosa? Sentivo il bisogno di anticipare, di controllare, di dire la cosa giusta, di fare il bravo educatore, con frasi d’effetto e larghi consensi.

Poi ho smesso di pensare, mi stavo solo agitando di più. Ho respirato. Ho respirato ancora. Ho smesso di anticipare e mi sono preparato solo ad essere presenza. I colloqui si svolgono nella saletta vicina all’aula di formazione, quella che utilizziamo per fare gli incontri di supervisione, un po’ lontani dal via vai della comunità. Vado ad allestire la stanza rifornendola di acqua, the, biscotti. L’ultima volta mi aveva rimproverato perché era finito tutto. Inizio così a prendermi cura, preparo il luogo del colloquio perché sia accogliente e confortante. Non appena Hamza entra nella stanza nota subito questa mia attenzione, ma non dice nulla, prende posto sulla poltrona e io di fronte a lui. Respira velocemente, sguardo basso, occhi sbarrati, labbra serrate, come in bilico a ogni respiro; io regolo il mio, di respiro, cercando di non fare eco al suo e passiamo alcuni minuti in silenzio. Sono io a rompere gli indugi e mentre lo faccio penso che devo ancora lavorare sulla mia difficoltà nel mal tollerare i silenzi prolungati: “Io sono qui, qualsiasi cosa tu voglia dirmi siamo insieme”. Ho ripensato molto a questa frase e mi sono reso conto che in quel momento stavo rassicurando me stesso, cercando a mia volta un equilibrio insieme a lui. “Capo...” è così che mi chiama “I miei genitori sono vivi”. Hamza da anni raccontava a tutti che entrambi i genitori fossero morti in un incidente stradale, mentre parla non mi guarda mai negli occhi. Prende fiato e prosegue “... Mia madre fa la puttana, io sono un bastardo, sono uno sbaglio; mio padre era un suo cliente e non mi ha mai riconosciuto, aveva già un’altra famiglia…quando avevo 10 anni mia madre mi ha detto chi fosse, era ubriaca quella sera, mi ha picchiato perché non avevo portato a casa neanche un dirham e mi ha detto -...tu sei un ibn zna (bastardo in lingua araba), una scopata andata male...-”. Hamza è in apnea, gli appoggio una mano sul braccio e lo aiuto a regolare il respiro picchiettando con il dito, è una delle cose che abbiamo imparato a fare per scongiurare gli svenimenti. Si lascia guidare e si appoggia allo schienale della poltrona, io faccio lo stesso e mi sorprendo calmo, fermo, ma profondamente triste, per quel bambino di 10 anni, per la miseria e la fragilità degli adulti che non l’hanno protetto, per il ragazzo che ho davanti che si è dovuto inventare una bugia che nella sua tragicità era una possibilità infinitamente migliore della realtà.

Trascorriamo ancora qualche minuto in silenzio, come se dovessimo far sedimentare ciò che è stato fino a quel momento agitato nell’aria, il suo sguardo non è più quello di chi sta cercando qualcosa nella mente, non è più assorto, sembra risvegliarsi. Alza lo sguardo torvo e mi fissa, lo riconosco quello sguardo, è un film già visto con lui: troppo vicini un attimo prima, urge distanza subito dopo. Come una furia si alza, mi urla in faccia:” …E adesso che cazzo fai?!!... Che cazzo dici eh?!!...come puoi aiutarmi?!” Tira due calci ad una delle sedie vicino al tavolo, spaccandola, io rimango seduto, lo seguo con lo sguardo; poi se la prende con il muro, inizia a colpirlo, a piangere, mi ritrovo in piedi ad abbracciarlo, lo contengo. Mi lascia fare e si lascia andare, il suo corpo rigido diventa molle, quasi fatico a sorreggerlo, piange nascondendo il volto nella mia spalla, ogni tanto dice “...perché?!”. Rimaniamo così per un po’, un tempo indefinito, dilatato, distante. Ci allontaniamo lentamente e senza parlare ci prepariamo un thè, lui si occupa di riempire il bollitore e io prendo tazze e bustine alla menta, il nostro preferito. Lo beviamo che è ancora bollente, come tutto ciò che è circolato in quella stanza. Rimaniamo in piedi appoggiati al tavolo, sembriamo due atleti alla fine di una gara… gli rimando questa immagine e lui sorride: “... tu sei vecchio, non hai più il fiato!” Sto al gioco e gli tiro un buffetto sulla guancia, accorciando nuovamente le distanze, lui se ne accorge e si avvicina e ci abbracciamo nuovamente, poi mi dice “Grazie…pensavo sarebbe stato più faticoso...”, “Grazie a te Hamza, di esserti fidato, sei stato coraggioso e generoso. Grazie a te”.

I giorni seguenti ho aiutato Hamza a condividere il suo segreto con gli altri operatori e con la sua terapeuta, mi sono fatto portavoce in alcuni casi e facilitatore in altri. Ha voluto riprendere i contatti con sua madre. Ha ancora tanto lavoro da fare e tanta sofferenza annodata al cuore, il suo racconto è stato solo l’inizio di un disvelamento che giorno dopo giorno diventa più chiaro e particolareggiato. In parte lo lavora in terapia, in parte lo condivide con la famiglia educativa di cui sta imparando a fidarsi. Non sviene da 4 mesi.

Hamza è un ragazzo marocchino di 18 anni. Quando la sua assistente sociale mi ha presentato il caso, mi ha parlato di un ragazzo che ha perso i genitori in un incidente stradale e che ha vissuto a lungo per strada, poi in qualche struttura senza mettere radici, riluttante alle regole, abituato a fare ciò che gli passa per la testa, a vivere di notte ed eclissarsi durante il giorno. Il suo sguardo mi ha da subito ingaggiato, era qualcosa che conoscevo, sapevo che avrei dovuto fare attenzione a questa familiarità. Ci siamo studiati a lungo prima di arrivare a comprenderci un po’. Ha messo alla prova tutta l’equipe con le sue altalene emotive, è un ragazzo carico di sofferenza che cerca attenzioni senza chiederle, che vuole essere visto, ma non tollera lo sguardo su di sé, una continua richiesta di vicinanza e allo stesso tempo di spazio, una relazione a singhiozzo, quando ti sembra di aver fatto un passo avanti, lui ti rispinge indietro, come se non tollerasse la “debolezza” di potersi affidare a qualcuno, troppo rischioso mostrare il fianco, credere alla buona fede di chi ti vuole aiutare, un azzardo che si paga a caro prezzo nella sua esperienza. Ogni tanto deve staccare la spina, non regge il peso dei pensieri, delle emozioni, forse della vita stessa. Da quando è arrivato è svenuto sei volte, ed è stato necessario l’intervento dell’ambulanza. I controlli ospedalieri non hanno rilevato niente di organico, ma tanta sofferenza psichica, svenire è il suo modo di attuare una piccola morte, un black out totale, fa scattare il salvavita, nel vero senso del termine. Abbiamo attivato una presa in carico presso la neuropsichiatria territoriale, lavorando in stretto raccordo con la sua terapeuta siamo riusciti a riconoscere anticipatamente le sue crisi, a dargli un significato, ad aiutarlo a dare parola ai suoi stati d’animo prima che questi si trasformino in agiti. È un lavoro lungo, ma lavorare in squadra sta portando dei buoni risultati.

Ho scelto di raccontare questo episodio come fosse un romanzo in onore di Erving Polster, che nel suo “Ogni vita merita un romanzo”(Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma, 1988), insegna come il dare nuova veste e nuovo slancio vitale ai singoli pezzi di una composizione, risignificare gli eventi, dare colore emotivo alle narrazioni delle persone significa anche riaprire a nuove prospettive, a nuove possibilità, è un modo di ridare dignità a frammenti di storie che nel canovaccio narrativo trovano un senso e si arricchiscono di particolari, rifuggendo l’appiattimento e la semplificazione che svuota l’esperienza di tutta la sua potenza. Il titolo dell’episodio “Ti svelo un segreto”, contiene in sé un riferimento già chiaro, quando si parla di segreti si apre una porta che solitamente ha dietro un mostro, noi operatori lo sappiamo e sappiamo l’importanza del disvelamento per il benessere della persona e quando siamo prescelti per esserne i testimoni è un onore, ma anche una grossa responsabilità. Se dovessi rappresentare con un’immagine l’idea di educazione che questo episodio mi suscita, userei quella di una diga che si apre e l’acqua fluisce con tutta la sua potenza (la catarsi del giovane) scaricando l’energia trattenuta. Gli argini del canale (ruolo educativo) impediscono la distruzione di tutto ciò che c’è lungo il percorso, ma non trattengono la potenza del fluire, la accompagnano. Come accennavo, nonostante lo stile narrativo poco accademico, ritengo sia un episodio significativo perché nella catarsi del disvelamento c’è stato un inizio di cambiamento, inoltre si possono trovare, nello spaccato sopra descritto, i diversi ingredienti del sapere e dell’agire educativo.

Il primo ingrediente è il lavoro di squadra, o quello di rete, volendo essere maggiormente didattici. Il supporto degli specialisti che hanno in carico il minore, la possibilità di confrontarsi con loro costantemente, di condividere gli strumenti utili a gestire gli svenimenti del ragazzo, la disponibilità dell’assistente sociale a collaborare in una progettualità condivisa e di supporto per il giovane, il lavoro dell’equipe educativa che nel quotidiano gestisce l’ordinario, ma che osserva e condivide con gli altri colleghi quanto accaduto o le proprie impressioni per facilitare chi entra in turno nel predisporsi nel modo giusto.

Il secondo ingrediente è la relazione. Hamza mi ha scelto consapevolmente, sapeva che ero in grado di sostenerlo, che non mi sarei spaventato, che tenevo a lui. Trovo questo punto uno dei più importanti, la relazione è lo strumento principe dell’educatore. Ma nel senso più autentico, è una relazione reale, tra due persone che si incontrano con le reciproche fragilità e paure. Non a caso ho voluto dare spazio nel mio racconto anche al mio stato d’animo, ai miei timori, non solo quelli di Hamza. Ho potuto riconoscere la mia ansia, il bisogno di controllo, la paura di non essere in grado di aiutarlo, la tristezza per Hamza. Allo stesso tempo ho percepito in lui quasi le medesime emozioni (ansia, paura, tristezza, rabbia...). L’educatore per essere in grado di ascoltare davvero l’altro deve essere in grado di essere in contatto con sé stesso, perché le proprie difficoltà non diventino difese, ma strumenti che possono anzi favorire l’incontro. Il rapporto interpersonale si è andato via via intensificando, pur mantenendo i diversi ruoli, si è colorato di una dimensione affettiva che ha aperto le porte alla fiducia. La comunicazione è stata essenziale, non ci sono state grandi spiegazioni, o lunghi discorsi, poche parole e una predisposizione all’ascolto. Il linguaggio non verbale ha fatto il resto.

Il terzo ingrediente è il tempo, la relazione si gioca nel qui e ora. La preoccupazione di “fare bene”, mi stava portando ad anticipare gli eventi prima che accadessero, a studiare “il discorsetto” per sentirmi più sicuro, ma questo avrebbe snaturato proprio l’autenticità dell’ascolto e dell’incontro, era necessario focalizzarsi sull’essere presenza. Ma il tempo è anche quello dell’attesa, del rispetto del tempo dell’altro, dell’accompagnare senza forzare, del saper essere pazienti tra la semina e il raccolto.

Il quarto ingrediente è il corpo. Trovo giusto che ci si interroghi e che ci sia attenzione nel contatto (lo suggerisce la parola stessa con-tatto), ma trovo altrettanto necessario sottolineare la potenza e l’importanza del contatto fisico come uno dei mezzi comunicativi fondamentali di cui l’essere umano si serve. Il contatto corporeo non è solo parte integrante del nostro sviluppo fin dalla vita intrauterina, ma è anche il primo strumento in assoluto di consapevolezza della vita stessa e del mondo esterno. Il tatto ci assicura una relazione con la realtà fino a quando non si sviluppano gli altri sensi. Nell’episodio che ho raccontato ci sono due modi di entrare in contatto, entrambi importanti. Il primo è il contenimento, l’holding se vogliamo utilizzare la terminologia corretta. Hamza perde il controllo e inizia a mettersi a rischio, l’abbraccio che descrivo è di contenimento, lo fermo per impedirgli di farsi male, per tenerlo insieme e non farlo andare in pezzi. Il secondo è un abbraccio affettivo, relazionale, di conforto, una dimostrazione di vicinanza che supera le parole che tendono a tradurre in termini cognitivi l’esperienza.

Il quinto ingrediente è il prendersi cura. Sono i piccoli gesti che mostrano nel quotidiano l’attenzione verso l’altro. Curarsi dei luoghi per curarsi delle persone.

Il sesto ingrediente è il setting. Il luogo del colloquio che ho avuto con Hamza necessitava di essere scelto con cura (non solo allestito). Ho scelto uno spazio riparato, protetto e dove Hamza potesse sentirsi libero al riparo da possibili intrusioni e dall’esposizione al resto del gruppo.

Questo episodio mi ha permesso di constatare una volta di più quanto il ruolo educativo non sia necessariamente saper “fare”, ma saper “stare” ed “essere”. Nell’episodio che ho descritto mi sono preparato facendo delle cose che dessero a me sicurezza e ad Hamza un messaggio di attenzione, ma quando ci siamo incontrati è stato essenziale ridurre le mie parole, essere in grado di sostenere il peso del momento senza scivolare nel confort della razionalizzazione cognitiva, fare argine, ma senza bloccare il fluire dell’emozione.

* Hamza è un nome inventato. Per proteggere le persone che ospitiamo, non possiamo rivelare i loro veri nomi.